Sono decollato di notte.

Dovrei pensare alla mia persona, intesa come sistema fatto di una struttura fisica e strutture mentali che lo animano, come un volo in aereo.
Io sono un passeggero del corpo. In cockpit ci sono entità superiori che hanno tutto sotto controllo: dove vado, a quanto vado, supervisione dei sistemi dell’aereo, dei motori.
Una mia forma primordiale quasi 33 anni fa decise di imbarcarsi su questo aereo, senza destinazione conosciuta, doveva fare il suo ruolo: essere portato.
E così, l’organismo di mia madre funzionò da aeroporto: accettò il passeggero, controllò che tutto fosse a posto, che non avessi con me parti pericolose a me stesso e agli altri, mi diede un biglietto con scritto il mio nome, mi infilò in una capsula, la sigillò e alle 8.36 del 3 dicembre 1988 la capsula si staccò dall’aeroporto. Dopo un veloce controllo che tutti i sistemi dell’aereo fossero funzionanti, l’equipaggio di persone a me assegnato spinse la capsula lungo un’ampia distesa di asfalto, per prendere le misure col terreno e la mobilità, sempre aiutato dalla sicurezza del terreno che raramente tradisce, per portarmi verso una lunga striscia di asfalto illuminata da tante luci colorate.
Ed è qui, dopo un breve stazionamento, che il corpo viene impregnato dall’interno di un liquido che improvvisamente rende tutto funzionale, i motori prendono vita, danno sfogo a tutta la loro capacità e potenza secondo progetto e lì, nella solitudine della tua capsula, vieni spinto a una velocità sempre maggiore, finché non accade la magia della portanza, e ti stacchi da terra. Solo tu, dentro una capsula puntata verso l’alto progettata a immagine e somiglianza di quegli esseri che popolano le fantasie e le leggende fatte di sogni.
E a quel punto non si fa altro che salire.
È piuttosto particolare come ambiente, sconosciuto, sensazioni strane con cui familiarizzare, a volte sballottato da alcune folate di vento, a volte accompagnato dai sussulti delle nuvole.
Io devo essere decollato di notte, perché l’ambiente esterno è piuttosto diverso da quello a terra, illuminato a giorno da luci, lampioni e segnali, e lentamente questo ambiente buio esterno, queste sensazioni, questa solitudine diventano sconfortanti. Capisci che sei da solo, alto chissà quanto, veloce chissà quanto, ma non capisci cosa succede.
Visto che non sai cosa stia succedendo, cerchi di venirne in qualche modo a capo e cominci a guardarti intorno, partendo dalle basi.
"Ho un paio di ali che mi tengono su", ci sono due motori che fanno un lavoro di forza enorme, c’è una capsula che ti fa capire che l’ambiente esterno non è adatto per il tuo organismo. Ci sono un sacco di sistemi, capisci che da qualche parte passa acqua, da qualche parte elettricità, da qualche parte carburante. La cosa più saggia che tu possa fare per garantirti una sopravvivenza è osservare, analizzare e monitorare attivamente ogni singolo sistema di questa capsula.
È un meccanismo molto istintivo e strutturato: corri subito a metterti il giubbotto salvagente appena senti che i motori abbassano un po’ la velocità, ti avvolgi alle cinture non appena senti che la capsula sballotta un po’ e ti fa perdere l’equilibrio. Dopotutto sai sempre che sei lassù, chissà dove, chissà quanto alto, chissà quanto veloce. Chissà verso cosa.
Ed è un meccanismo che premia perché sì che non è successo niente, però intanto “almeno stavolta non sei rimasto impreparato”, pronto per qualsiasi evenienza, pronto per la guerra.